GIOVANNI BORELLI
Nato nel 1867 a Pavullo da padre mazziniano e garibaldino, è morto il 30 luglio 1932 a Fontevivo di Parma. Conobbe la povertà, onorata ma dura, sin dai primi anni, lavorò alcun tempo come falegname. Poi, per l'intervento di parenti, data la straordinaria prontezza e vivacità del suo ingegno, venne mandato in un collegio a Reggio Emilia di dove uscì a circa vent'anni, col diploma magistrale. Frequentò l'università senza addottorarsi, poichè il bisogno ed il temperamento irrequieto lo spinsero, prima ad insegnare nelle scuole di una cittadina del Veneto, poi nel giornalismo. Giornalista, del resto, era sempre stato, fin da quando era in collegio. "L'Italia Centrale" di Reggio Emilia aveva allora pubblicato spe so saggi critici, articoli polemici, versi, novelle, ecc. "Il Panaro", vecchio giornale di Modena, lo ebbe collaboratore tempestoso, intorno a lui si accendevano discussioni, si formavano correnti, fervevano mischie che rimasero immortali. L'intermezzo di insegnamento scolastico durò pochissimo. Venne esonerato e tornò al suo paese, di dove, in seguito a tumulti contro di lui provocati per una questione "bandistica", venne inviato a Roma. Gli uomini politici della regione emiliana erano già con lui in relazione (Panzacchi, Basini, Tabacchi, Gandolfi, ecc.) ed Egli giunto a Roma fu presentato nel mondo della capitale dall'On. Basini, che lo amava di paterno affetto. Ma gli inizi furono scabrosi e difficili. Finalmente potè entrare al "Popolo Romano" dove venne subito "utilizzato" da quel giornalista cinico e grande che fu Costanzo Chauvet. Redattore mondano, critico drammatico, musicale, letterario scrittore di romanzi, di drammi, di commedie che ebbero grande risonanza, Giovanni Borelli eccelse però come redattore viaggiante. Fu due volte in Africa e le sue corrispondenze suscitarono grandissimo interesse. Coprì anche la carica di segretario dell'allora Governatore dell'Eritrea generale Gandolfi. Inviato in Sicilia all' epoca dei fasci socialisti, scrisse pagine d'alto interesse. Col trascorrere degli anni l'artista era in Lui soverchiato dal temperamento politico, che veniva precisando e plasmando quella singolare personalità di profetico animatore cui risale il merito di aver tenuto alti, in tempi oscuri, gli ideali della Rivoluzione Italiana. In seguito al disastro di Adua e alla caduta di Crispi, e dopo un infelice tentativo giornalistico "L' Arca di Noè", Giovanni Borelli da Roma si trasferì a Milano. Qui col barone Antonio De Marchi e Giannino Antona Traversi, fondò il "Capitano Cortese" magnifico settimanale d'arte, di letteratura, di mondanità. In seguito Torelli Viollier, fondatore e direttore del "Corriere della Sera" lo chiamò al grande giornale, dove tenne uno dei primi posti. Nel frattempo era nata, per iniziativa di uno spirito preclaro: Alberto Sormani "L'Idea Liberale" rivista politica alla quale collaboravano Gaetano Negri, Romualdo Bonfardini, Tullio Massaroni ed altri chiarissimi scrittori politici. In quel periodo (1896 1900) di traviamenti e di oblii, mentre la democrazia trasformistica stava maciullando i partiti, e la grande tradizione politica agonizzava, quel periodico rappresentava un tentativo audace: rivendicare l'idea madre della Rivoluzione liberale contro tutte le deviazioni. Morto precocemente il Sormani, Giovanni Borelli assunse la direzione della rivista, portandovi l'impeto del proprio temperamento battagliero. Un motto egli lanciò: tornare a Cavour. E cioè agli ideali pei quali la patria era risorta. Fu schernito, dileggiato, accusato, isolato senza pietà. Avrebbe potuto attraverso il "Corriere" aspirare a tutto. Dovette uscirne e affrontare la miseria. Fondò, con Isidoro Reggio, Arturo Colautti, Domenico Oliva, Giannino Antona Traversi, Ettore Moschino, un nuovo giornale: "L' Alba". Giornale di polemica. Oriani ne fu uno degli ornamenti principali. Condotto con criteri amministrativi severi ed oculati avrebbe certo avuto successo. Fu accolto infatti con largo favore per la battaglia implacabile condotta contro la democrazia massonica e il giovane socialismo, già potente di nome e di consensi. Declinò: gli scrittori sono di rado amministratori. E morì. Ma Borelli aveva, nel frattempo, irrobustito "L' Idea Liberale". Le sue polemiche con Panzacchi per il rinnovamento del Partito Liberale si avvicendavano alla requisitoria contro il socialismo contenuta nelle sue lettere a Camillo Trampolini, il messia d'allora. Tremenda posizione la sua, fra un mondo di conservatori ciechi ed immemori e l'ondata montante delle idee nascenti del marxismo rivoluzionario. Non cedette. Nel boicottaggio spietato della stampa (d'ordine) egli d'ogni tavola fece una tribuna, profondendo tesori di eloquenza e di passione. Affrontò con serena incrollabilità lo sbaraglio, e nacque, così il movimento dei Giovani Liberali. Movimento fecondo, che servì a porre il problema nazionale alla ribalta e tenne vivo in ogni regione, il sentimento della patria, tentando di irrobustire tutti quegli organismi nei quali si perpetuava la fiaccola degli ideali migliori. Oggi nei posti di maggiore responsabilità eccellono magnificamente discepoli di Giovanni Borelli. La Dante Alighieri, la Trento e Trieste ebbero in Lui un formidabile animatore. La battaglia elettorale, che egli affrontò decine di volte, fu sempre pretesto per affermare la necessità di un radicale rinnovamento della politica nazionale. La causa dell'intervento lo ebbe fra i primi e più ascoltati propugnatori. Le piazze di Milano e di Roma nei giorni decisivi lo videro a fianco di Cesare Battisti prodigarsi a proclamare, con grande eloquenza che lo collocava fra gli oratori eccelsi del suo tempo, la ineluttabilità del fato imminente. La guerra lo ebbe volontario. Guadagnò sul campo la promozione a Capitano per merito eccezionale. Fu poi direttore dell'ufficio Storiografico della Mobilitazione e, come tale, lasciò una mole poderosa di lavoro. Giovanni Borelli ebbe davvero da natura il privilegio di una vasta intelligenza e di un'anima aperta a tutte le forme della bellezza e della solidarietà umana. Passò portando la serenità del suo temperamento di Poeta attraverso la tempesta politica e, non nemico di alcuno, combattè per l' idea con inesausta energia, con mirabile coerenza. L'on. Michelangelo Zimolo, console generale del Governo Fascista ad Anversa, dalmata, coprì il feretro del magnifico apostolo della Passione e dell'Unità Adriatica con la bandiera storica degli Irredenti dalmatici e disse parole altamente sigificative sulla irreparabile perdita. S.E. il Capo del Governo, nel suo messaggio di condoglianza, dice in quale estimazione fosse tenuto il nostro Scomparso. Il suo testamento dettato in piena guerra, si rivolge al dolce e fresco nido (ah nativo paese!), all'adorata mamma così come può solo intendere l'appassionato Pellegrino che ritorna, ebro di poesia, alle scaturigini, alla fonte lirica creatrice del Suo e più vero capolavoro. La travagliata esistenza si ritroverà, fra breve, placata, nella pace elegiaca della chiostra Friniate.
LE VICENDE
- LA VIA GIARDINI
- IL MEDIO FRIGNANO NELL'OTTOCENTO
PERSONAGGI
- RAIMONDO MONTECUCCOLI
- GIANNANTONIO CAVAZZI
- MARCO ANTONIO PARENTI
- GIOVANNI BORELLI
- ARMODIO CAVEDONI
- FRANCESCO IV D'ESTE